Racconti  da bar in giro per il mondo

Racconti da bar in giro per il mondo

Nei bar se ne vedono di tutti i colori e si incontrano persone di tutti i tipi. Di storie assurde o personaggi surreali i baristi ne hanno così tante da raccontare da poterci scrivere un libro, questo è poco ma sicuro. Ma quali storie da bar hanno da raccontare invece i viaggiatori? Quando si tratta di bar tutto il mondo è paese?

Se c’è una cosa che abbiamo imparato a coltivare negli ultimi 14 mesi sono i ricordi di viaggio. Chi di noi non si è trovato a cercare di colmare un indiscrivibile senso di vuoto ripercorrendo nei meandri della propria mente le esperienze vissute? Di tuffi nei ricordi ne ho fatti in questi mesi ma di recente un film in tv ha acceso nella mia mente un flash di memoria su un viaggio in Russia che è stato scandito da lunghi momenti passati nei bar.
E mi sono resa conto che non sono pochi gli episodi curiosi vissuti in questi luoghi di incontro. Perchè non raccontarveli allora?

Storie da bar in giro per il mondo

Il bar anticapitalista a Berlino

La Berlino dei primi anni ’90 era una città assai diversa da quella a cui ci siamo abituati negli ultimi anni. Una Berlino che non esiste più e che non tornerà. Casa della musica techno e dei club, di anarchici, ribelli ed alternativi, come Arnold, il mio insegnante di tedesco nella scuola che frequentavo a Kreuzberg.
Incrocio tra il tennista Agassi ed il tyrannosaurus rex, Arnold è stato per noi studenti una personale guida nell’anima underground di Berlino tra industrie dismesse trasformate in club e bar in scantinati.

In uno di questi, di cui non ricordo quasi nulla se non che vi era un curioso bancone in legno con un alligatore intagliato e che venditori di street food giravano tra i tavoli con cibi fino ad allora a me completamente sconosciuti, si è consumato il mio incontro con l’animo alternativo della città.
Giunto il momento di prendere da bere, dico al cameriere <<eine Coca Cola, bitte>> cercando di far sentire la mia voce tra il chiasso delle voci sovrapposte e la musica degli Ärzte in sottofondo.
Scende il gelo nel bar. Mi guardano tutti quasi indignati. Mi faccio piccola piccola. Il cameriere con voce seria mi fa <<Una Coca Cola? La bibita dell’Impero? Noi abbiamo solo l’Afri Cola!>>
Calma ragazzi, non sapevo. Bastava dirlo.
Prendo un’Afri Cola, la regina delle Cola!

 

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Mosca ed il Coyote Ugly

Qualche giorno fa il pessimo film in tv di cui vi parlavo all’inizio mi ha portato alla mente un viaggio di lavoro fatto nel 2011 a Mosca. Non ricordo più quanti eravamo a parteciparvi ma sicuramente non meno di dieci.
Io, mai stata in Russia ed unica donna della compagine, a fare da guida ad un eterogeneo gruppo di imprenditori in visita ad una fiera e con i comportamenti da adolescenti in gita scolastica.
Mi sarebbe piaciuto perdermi a lungo nei tramonti sulla Moscova e sulla Piazza Rossa ma i miei compagni di viaggio erano più interessati ai divertimenti post lavoro.

I miei ricordi russi perciò sanno più di alcol e birra che delle bellezze nascoste di Mosca. Come la seconda sera quando nel nostro girovagare ci troviamo improvvisamente davanti al Coyote Ugly nella sua versione russa.
Se vi è capitato di vedere il film, capirete subito che per i miei compagni di viaggio è stato come mettere un orso di fronte ad un’arnia piena di miele. L’allegra scolaresca non ci pensa due volte a buttarcisi dentro. Ed io a ruota devo seguirli.

Come nei migliori film adolescenziali gli “orsacchiotti” con il testosterone a mille si fanno fregare dalle avvenenti bariste russe, che di tanto in tanto salgono sul bancone a ballare, offrendo loro da bere come se non ci fosse un domani.
A fine serata nessuno ha più un rublo in tasca, l’hotel è lontano ed i taxi non accettano le carte di credito. Non so nemmeno come ma qualcuno trova un passaggio per tutti in una macchina privata per 50 euro. Una di quelle cose che nessuna persona sana di mente farebbe. Ci infiliamo in macchina in dieci. E riusciamo persino a tornare in albergo.

La bettola a Gaziantep

Dopo un’intensa giornata trascorsa tra polverose fabbriche e viaggi in macchina con quaranta gradi all’ombra una pinta di birra ghiacciata è ciò che più aneliamo. Ciò che ad Istanbul risulta estremamente facile da realizzare nel sud est della Turchia risulta quasi un’impresa. Trovare ristoranti e bar al di fuori del proprio hotel che servano alcol è una chimera. Ma siamo a Gaziantep per la prima volta e la scelta dell’albergo non si rivela azzeccata. Io mi accontenterei di una Coca Cola (lo so, è una fissa la mia) ma i miei due compagni di viaggio vogliono assolutamente sorseggiare una birra. Ci indicano un posto, qualcosa di simile ad una associazione.

 

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Non senza difficoltà riusciamo a raggiungerlo. Scendiamo in un sottoscala buio e fumoso, una bettola più che un bar. Alla nostra vista tra gli uomini nel locale cala il silenzio. Uomini sì, perché si tratta di un’associazione per soli uomini. Un senso enorme di disagio mi sopraffà. Non so se avete presente quella sensazione di sentirsi decine di occhi addosso.
Ci sediamo e nessuno ci dice nulla. I miei compagni ordinano tre birre ma preferisco non bere la mia. Sono pur sempre in una zona più tradizionale della Tuchia e già mi sento un’intrusa tra tutti quegli uomini. Ordiniamo delle patatine fritte e nonostante arrivino più nere che dorate, fritte chissà quante volte nello stesso olio, continuiamo ad ordinarle per fame.

I miei compagni continuano a mandar giù birre mentre io mi accontento della bevanda imperialista.
Nel frattempo ecco che in tv va in onda la partita della nazionale turca e come per incanto la tensione svanisce. Ci ritroviamo a condividere gioie e sofferenze con le persone sedute agli altri tavoli accompagnando le azioni dei calciatori con smorfie o applausi. Con i nostri çok güzel e le poche altre parole turche che padroneggiamo il senso di imbarazzo si volatilizza ed è come essere in una mega incontro tra amici durante i mondiali.
L’abilità di italiani e turchi nel comunicare con i gesti fa superare le barriere linguistiche. La nazionale turca vince e la bettola con tutte quelle risate sembra un luogo davvero meno ostile di quello che ci era sembrato.

Una pinta di cappuccino a Gerusalemme

Il venerdì pomeriggio a Gerusalemme ha il sapore di certe nostre domeniche in cui tutto sembra immobile. Ci si avvicina allo Shabbat e le attività si preparano alla chiusura. Trovare bar o ristoranti aperti tra il venerdì ed il sabato richiede grande pazienza ed anche un po’ di fortuna se non si è informati in anticipo.
Giriamo tra le strade quasi deserte quando la musica proveniente da un grazioso bar con tavoli all’aperto ci invoglia a fare una piccola pausa. Non so perchè e percome ma decidiamo di ordinare un cappuccino, manco fossimo in Italia.

Passa oltre mezz’ora e del nostro ordine non si vede nemmeno l’ombra. I tavoli cominciano ad affollarsi di giovani che ricevono regolarmente le loro ordinazioni. Il cameriere continua a dirci che i nostri cappuccini stanno arrivando mentre noi cominciamo a perdere ogni speranza. Proprio mentre stiamo per alzarci, ecco arrivare i nostri cappuccini.
In una pinta da birra.  Lo strano intruglio contenuto nel bicchiere ondeggia come se fosse animato di vita propria. Proviamo a berlo ma il sapore è pessimo e desistiamo.

La pausa ristoratrice ci è andata male. Prima di proseguire il nostro giro decidiamo di entrare nel minimarket di fronte al bar per rifornirci di acqua.
Con nostra grande sorpresa vediamo accanto alla cassa un piccolo distributore di caffè a moneta ed alcune pinte impilate esattamente come la nostra. Mi sembra la giusta punizione per aver ordinato un cappuccino all’estero.

Ad Hangzhou ci vuole stomaco

Ai miei viaggi di lavoro in Cina risalgono alcune delle esperienze più curiose, strambe e non sempre divertenti che io abbia mai fatto. Se nel primo viaggio ne ho avuto un assaggio, nel secondo ne ho fatto incetta. Mio malgrado.
Come a poche ore dal mio atterraggio ad Hangzhou.

Il responsabile commerciale dell’azienda con cui stiamo collaborando ci viene a prendere in aeroporto. Dal momento che è arrivata l’ora della sua pausa pranzo ci chiede se ci dispiace fermarci in un locale per rinfrescarci e mangiare qualcosa.  Storditi dal lungo viaggio, dal caldo e dal fuso orario accettiamo, sebbene il nostro sogno più recondito dopo 3 voli sia quello di raggiungere l’hotel.
Ci fermiamo in un moderno e luminoso bar.  Ordiniamo anche da mangiare.  Prendo l’anatra e qui commetto un grave errore perchè della cucina tradizionale cinese non so assolutamente nulla e così prendo capre per cavoli. Che nella mia esperienza cinese vuol dire credevo fosse anatra laccata invece era un calesse ovvero un piatto terribile.

Amo il cibo etnico ed in particolar modo quello asiatico, ma il mio piatto a base d’anatra è davvero disgustoso e faccio estrema fatica a mandarlo giù. Nulla però in confronto a quello che va in scena al tavolo di fronte al mio.  Ahimè alcuni cinesi hanno la cattiva abitudine di sputare ovunque e per di più in maniera tremendamente rumorosa. E questo anche nei locali. Anche in quello in cui ci troviamo.
E così al disgusto per ciò che sto mangiando si aggiunge il disgusto per quello che vedo e sento. Non ho mai lottato così tanto per non dare di stomaco.
Soprattutto non sono mai stata così felice di iniziare a lavorare dopo un lungo volo.